sexta-feira, 30 de janeiro de 2009

La scomunica ai lefebvriani non c’è più. Ma la pace resta lontana Sandro Magister


www.chiesa, 29 gennaio 2009


Roma I “magnanimi gesti di pace” che Benedetto XVI ha compiuto più volte in direzione dei lefebvriani non sono stati seguiti finora, da parte di essi, da alcun passo significativo di ravvedimento e di avvicinamento.

Il primo di questi gesti è stata l’udienza accordata il 29 agosto 2005 da Benedetto XVI al successore di Lefebvre e capo della comunità, il vescovo — all’epoca scomunicato — Bernard Fellay.

Il secondo gesto è stato il discorso del papa alla curia romana del 22 dicembre 2005. Un discorso di capitale importanza, perché andava al cuore della questione su cui è nato lo scisma lefebvriano: cioè l’accettazione e l’interpretazione dei Concilio Vaticano II. Benedetto XVI mostrò che il Vaticano II non segnava alcuna rottura con la tradizione della Chiesa, anzi, era in continuità con essa anche là dove sembrava segnare una svolta netta rispetto al passato, col pieno riconoscimento della libertà religiosa come diritto inalienabile di ogni persona.

L’Osservatore Romano ha ripubblicato tre giorni fa quel discorso del papa, assieme al decreto di revoca della scomunica ai quattro vescovi lefebvriani.

Il terzo gesto è stato la liberalizzazione del rito antico della messa, col motu proprio Summorum Pontificum del 7 luglio 2007.

Tuttavia i lefebvriani interpretarono questo gesto semplicemente come un cedimento alle loro posizioni. In più vi fu la reazione di molti ebrei per la preghiera per la loro “conversione”, nonostante Benedetto XVI l’avesse poi riformulata.

Il quarto gesto è quello dei giorni scorsi: la revoca della scomunica. Papa Ratzinger l’ha compiuto unilateralmente, come “dono di pace”, nella dichiarata speranza di incoraggiare una rapida discussione e soluzione dei punti di divisione.

Va detto però che lo scorso 15 dicembre, nella sua ultima lettera scritta alle autorità della Chiesa di Roma prima del “dono”, il capo dei lefebvriani Fellay non dava alcun segno di voler accettare il Vaticano II nella sua integralità: “Noi siamo pronti a scrivere il Credo con il nostro sangue, a firmare il giuramento antimodernista, la professione di fede di Pio IV, noi accettiamo e facciamo nostri tutti i Concili fino al Vaticano II, riguardo al quale esprimiamo riserve”.

La critica che nella curia romana e tra i vescovi si rivolge a Benedetto XVI è di agire solo con gesti unilaterali, senza ottenere nulla in cambio.

Con gli ebrei è lo stesso. Si riconosce a Benedetto XVI di aver prodotto i testi più alti e più costruttivi per il dialogo tra le due fedi. Ma gli si imputa che contro le sue parole stridono troppi fatti.

Un esempio è ciò che è accaduto nei giorni scorsi. All’Angelus di domenica 25 gennaio Benedetto XVI ha pronunciato parole audaci sulla “conversione” dell’ebreo Paolo. Ha persino detto che per Paolo il termine “conversione” è improprio, “perché gli era già credente, anzi ebreo fervente, né dovette abbandonare la fede ebraica per aderire a Cristo”.

Nessun silenzio può essere rimproverato alla Santa Sede oggi, di fronte alla negazione della Shoah fatta dal vescovo lefebvriano Williamson. Una prova è in questo articolo pubblicato con grande evidenza su L’Osservatore Romano del 26-27 gennaio. Ne è autore Anna Foa, docente di storia all’Università di Roma La Sapienza, ebrea:

[N. Res. — Do artigo, publicado na íntegra no Osservatore Romano, transcrevemos apenas o primeiro parágrafo:]

Il negazionismo della Shoah non è un’interpretazione storiografica, non è una corrente interpretativa dello sterminio degli ebrei perpetrato dal nazismo, non è una forma sia pur radicale di revisionismo storico, e con esso non deve essere confuso. Il negazionismo è menzogna che si copre del velo della storia, che prende un’apparenza scientifica, oggettiva, per coprire la sua vera origine, il suo vero movente: l’antisemitismo.

Nenhum comentário: