sexta-feira, 12 de junho de 2009

I divorziati cattolici: nuove regole in Chiesa

Corriere della Sera, 28 maggio 2009

Elvira Serra
Oltre al dolore, l’esclusione. Cose piccole e grandi: non leggi più dal pulpito, non fai più il catechista, non puoi più essere padrino o madrina ai battesimi e alle cresime. Testimone di nozze, forse; il «Direttorio di pastorale familiare » della Chiesa cattolica non detta un no definitivo, ma quasi: «Non sussistono ragioni intrinseche per impedire che un divorziato risposato funga da testimone nella celebrazione del matrimonio: tuttavia, saggezza pastorale chiederebbe di evitarlo ».
L’eucarestia, però, soprattutto. «Mi sento anoressica. Perché quando vado a messa non posso fare la comunione. Eppure il sacerdote, durante l’elevazione dell’ostia, non dice forse: prendete e mangiatene tutti?». Così raccontava la sua frustrazione una quarantenne «serenamente separata» e «felicemente convivente » durante l’incontro (il primo di una serie) voluto dal vescovo di Arezzo Gualtiero Bassetti per mandare agli «sposi in situazione di separazione, divorzio e nuova unione» un messaggio preciso: «La Chiesa non vi abbandona, non sentitevi soli».
Parroci controcorrente. Ma non è soltanto questo. Per chi è stato battezzato, cresciuto in una famiglia cattolica, sposato in Chiesa e magari ha avuto dei figli educati secondo i principi cristiani, è difficile sentirsi lasciati soli quando c’è più bisogno di conforto. Don Luigi Garbini, giovane e anticonvenzionale prete di San Marco a Milano, protesta: «Io faccio fare la comunione a tutti. A parte il fatto che non ricordo a memoria i loro peccati quando vengono a prendere l’ostia: ma cosa dovrei fare, fermarmi e dire ‘tu sì’ e ‘tu no?’».
E sgrana gli occhi dietro la montatura di Antonio Gramsci quando sbotta: «Gesù è venuto per i malati e non per i sani. È difficile capire come mai una unione non è andata in porto, chi è attore e chi subisce. A volte le cose sono semplici, altre dolorose. Dunque è un paradosso negare il sacramento a chi ne avrebbe più bisogno: la grazia sacramentale non si può ottenere in nessun altro modo. Purtroppo la disciplina ecclesiastica non ha ancora trovato una formula per dirimere la questione. L’ultimo del cardinale Martini mi sembra l’ennesimo intervento che dimostra la sua grandissima intelligenza e la sordità dell’episcopato italiano».
Iniziative individuali come quella di don Garbini sono più frequenti di quanto si pensi. Ma ci sono anche altre formule, scelte dai sacerdoti per non far sentire soli i fedeli. Come quella di don Pigi Perini, parroco dal 1977 nella basilica milanese di Sant’Eustorgio, che al momento dell’eucarestia non dà l’ostia consacrata ai divorziati o ai separati conviventi, però parla con loro, le mani sulle spalle, due battute, una benedizione. E li riconosce perché quelli si mettono in fila tenendo una mano sul petto.
La società cambia. E non si può pretendere che la Chiesa si adegui. Ma sono fuori dai sacramenti pure i conviventi, che in certi casi non trovano neppure un prete disposto a battezzare i loro figli. Come loro, le coppie sposate solo civilmente, che per il Direttorio di pastorale familiare vivono «una situazione inaccettabile per la Chiesa».
Nell’ultimo sondaggio Eurispes «Gli italiani e la Chiesa: tra fedeltà e disobbedienza», una domanda riguardava esplicitamente i divorziati e i risposati civilmente: «Sei d’accordo che non possano essere ammessi alla comunione?». Il 61,7% ha risposto «per niente», il 17,6% «poco», l’11,1% «abbastanza», il 5,8% «molto» e il 3,8 «non lo so». E il Vaticano, oggi, cosa risponde?

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